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Ognuno ha i suoi numeriGiuseppe TomassettiQuesto numero della rivista contiene un focus sull’industria chimica, con articoli di autori che partono da diverse basi di dati ed usano diverse assunzioni; questa è una ghiotta occasione per una analisi di come è possibile usare i numeri a disposizione per cercare di descrivere la realtà e i rischi cui si va incontro. Le analisi più dirette si basano sul confronto delle variazioni di un parametro rispetto ad altri considerati stabili, le più raf nate cercano di tener conto del fatto che tutto si muove elaborando indicatori; spesso però si rischia, nel dare una misura quantitativa ad un fenomeno già conosciuto, di dare i numeri su cose sconosciute.La prima dif coltà sta nel fatto che con gli stessi nomi si indicano cose diverse. Il documento di Giuseppe Astarita (Federchimica) include nei consumi della chimica anche gli usi non energetici (concimi, materie plastiche,  bre), mentre BEN ed EUROSTAT li mettono fuori dai consumi  nali. Ora sappiamo bene che moltissimi prodotti di largo consumo, spesso usa e getta, realizzati con materie plastiche di bassa qualità (non col glorioso moplen) sono importati, quindi mancherà dal conto dei consumi non tanto quello per produrre gli oggetti ma soprattutto quello per produrre il materiale base. Ritengo però che la “colpa” non sia della chimica, ma del settore italiano della grande distribuzione organizzata che non ha saputo far crescere i suoi clienti verso la qualità facendosi assorbire da realtà come IKEA, ZARA, H&M nonché bancarelle ambulanti.Altro confronto interessante è quello sulla cogenerazione, sopravvissuta allo strangolamento della nazionalizzazione grazie soprattutto alle industrie chimiche: nel ‘98, prima della liberalizzazione, generava il 25% dei 200 TWh termoelettrici italiani. L’UNAPACE, l’associazione di categoria monitorava lo stato degli impianti e la produzione e diffondeva i risultati promuovendo il ruolo degli operatori. Dopo la liberalizzazione la cogenerazione è esplosa, nel 2014 ha generato il 46% dei 185 TWh termoelettrici italiani, ma per disinteresse, accidia e storica incapacità a collaborare una volta passato il pericolo, sono state chiuse tutte le attività di informazione e di promozione; sappiamo che nel 1998 la chimica su 21 TWhe consumati ne cogenerava 6,4 mentre non sappiamo quanti ne ha cogenerati dei 14,2 TWh consumati nel 2014.Anche su questo tema bisogna evitare le sempli cazioni, dopo 20 anni nulla è più come prima e non si possono più fare confronti diretti. Allora la centrale di cogenerazione era una sezione dell’industria manifatturiera che autoconsumava il calore recuperato e larga parte dell’elettricità prodotta, le perdite di trasformazione appartenevano ai consumi  nali della manifattura.Oggi la centrale di cogenerazione appartiene ad una impresa del settore “industria dell’energia” che vende calore alla manifattura ed elettricità a vari clienti fra cui la manifattura, magari in regime di SEU, le perdite di trasformazione non rientrano negli usi  nali industriali ma nella sezione delle trasformazioni; anche così diminuiscono i consumi industriali. Eurostat ha formalizzato un nuova fonte secondaria, il “calore derivato”.La chimica di oggi ha poco a che vedere con quella di Mattei, Natta, Ce s e Gardini ma senza dati rimane sempre un universo oscuro.3/2016 7Editoriale


































































































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